Bambino aspettavo con ansia la festa di Ognissanti, il primo di 4
giorni di scuole serrate e compiti rinviati fino allo spasimo. Un
anticipo delle più corpose festività natalizie, quasi due settimane
di pigre vacanze senza orari, con il minimo indispensabile di divieti:
periodo di felice anarchia, di sospesi controlli da parte degli adulti impegnati
nella ideazione di pantagruelici pasti e sontuosi presepi. E di soddisfatta
golosità annunciata dal morbido torrone dei morti, un fascinoso
impasto di cioccolato e nocciole intere che dominava in uno con i confettoni
ricoperti di bianchi diavulilli – altra tipica specialità salernitana
– le vetrine delle pasticcerie. Effimeri protagonisti, costretti – trascorsi
una decina di giorni – a cedere il posto ai dolci natalizi: paste reali che
imitavano alla perfezione, fin nei più minimi dettagli, frutti di mare e
di terra dando vita a stupefacenti trionfi che ricordavano le nature morte
dei pittori seicenteschi napoletani, raffioli, susamielli, bruniti croccanti
